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Polonia, in vigore la legge che vieta l'aborto. Le donne tornano in piazza 1

Polonia, in vigore la legge che vieta l’aborto. Le donne tornano in piazza

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La promulgazione è stata decisa all’improvviso ma il movimento femminile non si arrende: manifestazioni in più di 20 città

Le donne polacche tornano in strada contro la legge che limita il diritto all’aborto. Grandi manifestazioni indette dal movimento Strajk Kobiet, (letteralmente, sciopero delle donne) si sono tenute in almeno venti città dopo che il governo ha annunciato pubblicazione e simultanea entrata in vigore con valore di legge della sentenza della Corte costituzionale che vieta  l´aborto, salvo in caso di incesto, stupro o pericolo per la vita della madre.

L’ondata di protesta è stata lanciata da Strajk Kobiet con appelli su Facebook e sugli altri social media. “Si annuncia una notte difficile”, ha affermato Klementyna Suchanow, una delle due leader del movimento insieme a Marta Lempart.

Il governo, mercoledì pomeriggio, aveva annunciato che la legge sarebbe entrata in vigore in serata praticamente in contemporanea con la sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale: una pubblicazione che era stata a lungo rinviata, facendo sperare in un compromesso. Ora si torna al confronto muro contro muro.

La sentenza della Corte suprema risale al 22 ottobre scorso: dichiarava anticostituzionale in quanto non conforme agli articoli della Legge fondamentale sulla protezione della vita del nascituro ogni tipo di aborto, eccetto le interruzioni di gravidanza chieste da donne vittima di incesto o stupro, o nel caso che si profili un pericolo per la vita della madre. Illegale anche l´interruzione di gravidanza nel caso di malformazioni gravi e letali del feto e di problemi sanitari tali da implicare l´inevitabile morte post parto del neonato.

Da allora Strajk Kobiet è nato ed è presto divenuto il più importante movimento di opposizione della società civile. “Se il governo ha scelto l’inferno per le donne, noi cucineremo un inferno per questo governo”, ha detto Suchanow invitando le donne a scendere nuovamente in piazza dopo le proteste di novembre.

In Polonia, prima della svolta decretata dalla Corte suprema, secondo dati ufficiali si sono avuti in media duemila aborti legali ogni anno, comprese quindi interruzioni di gravidanza decise per malformazioni letali del nascituro, ora proibite. Media indipendenti e ong calcolano d´altra parte in oltre 200mila gli aborti effettuati clandestinamente, o effettuando viaggi in uno dei Paesi vicini (Germania, Repubblica Ceca, Nord Europa) dove l’interruzione di gravidanza è permessa. Le restrizioni ai viaggi imposte dalla pandemia rendono tali viaggi difficilissimi o impossibili.

Confermando la linea dura, Jaroslaw Kaczynski, ex premier e leader del partito conservatore Diritto e Giustizia aveva colto pochi giorni fa l’occasione del suo discorso alla messa in memoria della  madre Jadwiga affermando che “la Polonia è sotto attacco del Demonio, oggi col movimento contro il diritto alla vita e gli attivisti Lgbt come nel 1939 con i nazisti e nel dopoguerra col comunismo”.

Fonte: https://www.repubblica.it/esteri/2021/01/27/news/legge_aborto_polonia_manifestazioni-284532662/


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Parità fra i sessi c'è ancora molto da fare 1

Parità fra i sessi c’è ancora molto da fare

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A prima vista sembra una cosa semplice: «Uomo e donna hanno uguali diritti.» Questo principio è iscritto dal 1981 nella Costituzione federale e dal 1996 è articolato nella legge sulla parità dei sessi (LPar). Alcuni servizi fanno opera di sensibilizzazione in merito a questa problematica. Finora sono circa mille le persone che hanno deciso di lottare contro una discriminazione che li ha colpiti. Ciononostante sussistono ancora differenze inspiegabili in ambito salariale e per quanto concerne il perfezionamento e la carriera professionale. Come si spiegano? E come fare a eliminarle?

SITUAZIONE AMBIVALENTE

Nel maggio 2018 l’ONU ha assegnato il «Public Service Award» all’Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo (UFU), premiando quindi l’impegno della Svizzera a favore della parità salariale. Tutto bene? No, poiché proprio nel 2018 il Parlamento ha emanato disposizioni che obbligano determinate imprese a effettuare analisi sulla parità salariale, dato che le attività svolte su base volontaria non hanno manifestamente consentito di raggiungere gli obiettivi prefissati.

Questi due eventi contrastanti riflettono l’ambivalenza che persiste in questo campo anche a 23 anni dall’introduzione della LPar.

SPERANZE ESAUDITE?

Anche con i 18 nuovi articoli di legge, la lotta contro le singole discriminazioni è tutt’altro che una semplice passeggiata. Nell’economia privata chi si ribella viene facilmente messo alla porta. Nel 2006 il Consiglio federale presenta un primo rapporto sull’efficacia della LPar in cui afferma che, in linea di principio, la legge si è dimostrata valida e che nelle professioni tipicamente femminili le azioni di gruppo hanno modificato la struttura salariale dei Cantoni.

Esprimono invece delusione– per non dire amarezza – le conclusioni della comunità di lavoro che ha esaminato la problematica: nel settore privato la differenza salariale media non ha subito praticamente alcuna modifica e la paura di essere licenziate ha indotto molte donne a rinunciare a intentare un’azione. Anche chi si impegna nella lotta contro le molestie sessuali sul posto di lavoro deve di regola fare i conti con la perdita del posto di lavoro.

STEREOTIPI DI GENERE PROFONDAMENTE ANCORATI

Nel 2016 un secondo bilancio degli specialisti rileva nuovamente aspetti problematici. Le lacune del processo di applicazione sarebbero dovute in primo luogo al fatto che le donne discriminate devono esporsi personalmente affrontando un processo che può anche diventare costoso e nel corso del quale i tribunali di prima istanza tendono a riconoscere come legittimi troppi argomenti addotti per giustificare le differenze salariali. In secondo luogo la discriminazione viene praticata in modo indiretto e inconsapevole in linea con i tradizionali ruoli di genere di cui è intessuta la nostra cultura.

Il Consiglio federale giunge alla conclusione che in questo ambito occorre modificare le condizioni quadro. Per le organizzazioni dei lavoratori ciò significa garantire la trasparenza salariale. Il Consiglio federale chiama quindi in causa le imprese.

ANALISI SALARIALI AL POSTO DI INTERVENTI SU BASE VOLONTARIA

Il Consiglio federale propone di conseguenza che le imprese con oltre 50 collaboratori siano tenute a riesaminare i loro salari a ritmo quadriennale. Al Consiglio nazionale la modifica di legge proposta è controversa. Al momento del voto il Parlamento approva le misure proposte ma innalza la soglia d’applicazione alle sole imprese con oltre 100 lavoratori. Le analisi concernenti la parità salariale dovranno quindi essere effettuate solo dall’1 per cento delle imprese che però impiega il 46 per cento dei lavoratori. Anche se per le imprese in cui emergeranno lacune non sono previste sanzioni, la consigliera federale Sommaruga si dice convinta che «la trasparenza richiesta dalla legge avrà comunque effetto».

Al Consiglio nazionale il dibattito ha evidenziato ripetute oscillazioni fra posizioni scettiche e posizioni ottimiste, come spesso succede nelle discussioni su questo tema. Già nel 2015 la presidente dell’autorità di conciliazione del Cantone di Zurigo Susy Stauber-Moser affermava: «sono fiduciosa che le disparità salariali fra uomini e donne si ridurranno». Ma poco dopo aggiungeva: «avremo ancora bisogno della LPar per lungo tempo».

Fonte: https://www.parlament.ch/it/über-das-parlament/donne-politiche/parità-fra-i-sessi-ancora-molto-da-fare


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SINTESI DEI DIRITTI FEMMINILI IN SVIZZERA

SINTESI DEI DIRITTI FEMMINILI IN SVIZZERA

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L’introduzione del diritto di voto e di elezione alle donne rientra fra i i cambiamenti più importanti intervenuti nel sistema politico della Svizzera dalla fondazione dello Stato federale nel 1848. Il 7 febbraio 1971, il 65,7 per cento degli uomini svizzeri ha votato a favore del diritto di voto e di elezione delle donne. Sino a quel giorno la metà della popolazione svizzera non poteva né eleggere né essere eletta, e nemmeno votare o firmare un referendum. Per oltre un secolo le donne hanno lottato per i loro diritti e sono stati necessari numerosi interventi parlamentari e diverse votazioni popolari per realizzare questo obiettivo.

Nell’autunno del 1971 le Svizzere e gli Svizzeri hanno eletto dieci consiglieri nazionali e una consigliera agli Stati. Già dopo alcuni giorni un’undicesima consigliera nazionale era subentrata a un deputato, che era stato eletto nel Consiglio degli Stati. Da allora la quota delle donne nel Consiglio nazionale è aumentata costantemente: 12 seggi nel 1971, 95 nel 2019.

Fonte: https://www.parlament.ch/it/über-das-parlament/donne-politiche/sintesi-dei-diritti-femminili-in-svizzera

Per approfondimenti:

https://www.parlament.ch/it/über-das-parlament/donne-politiche/quota-donne-potere-politico/quote-di-donne-sotto-la-cupola


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Gli Jenisch in Svizzera: una storia di persecuzioni

Gli Jenisch in Svizzera: una storia di persecuzioni

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Chi sono gli Jenisch?

L’origine non è certa, ma essi si definiscono diretti discendenti dei Celti. Comunque dopo la Seconda Guerra Mondiale, su espressa richiesta di una loro rappresentanza mandata alla Romani Union, furono accolti nella comunità degli zingari. La Svizzera, con 35.000 unità, è la quarta nazione con il maggior numero di Jenisch; di questi si calcola che 5.000 siano nomadi. Per quanto detto, mentre le popolazioni romani (Rom, Sinti, Kalé, Romanichals) sono etnie di derivazione indiana, gli Jenisch sono di origine germanica e hanno un loro proprio idioma. Gli Jenisch, così come i Rom e i Sinti, furono aspramente perseguitati nella Germania nazista, rinchiusi nei lager, e pagarono un alto prezzo in termini di vite umane.

In nome dell’eugenetica

In Svizzera è attestato già nel 1825, a Lucerna, che un gruppo di Jenisch fu processato per crimini contro la società. Sotto tortura hanno confessato migliaia di crimini, e furono condannati a pene detentive. Furono loro sottratti i figli con l’intenzione di “rompere” le famiglie allo scopo contrastare la cultura, la lingua e i modi di vita di una comunità che non rifletteva gli ideali d’ordine dell’epoca. Un secolo dopo, gli Jenisch subivano ancora, nella Confederazione, un tentativo di sterminio scientifico che terminò solo nel 1975. Secondo i parametri applicati dalle autorità elvetiche, i nomadi erano considerati pericolosi asociali irrecuperabili, da tenere a bada con metodi repressivi. Il fatto di essere cittadini svizzeri non proteggeva gli Jenisch dal disprezzo e dall’ostilità. A occuparsi di loro, fino agli anni ’20, erano stati i Comuni e i Cantoni. Nel 1926, in pieno clima di cultura eugenetica e di pulizia della razza che spirava anche in Svizzera, Alfred Siegfried diventò responsabile della sezione Scolarità Infantile della fondazione Pro Juventute. Convinto della necessità di ridurre il numero degli Jenisch attraverso la sterilizzazione e il divieto di matrimonio, fondò il programma Hilfswerk fur die Kinder der Landstrasse (“Opera di assistenza per i bambini di strada”) che rimase attivo fino al 1972. Nel 1943 Siegfried tenne a Zurigo una conferenza nella quale espresse in modo esplicito gli scopi, i metodi e l’ideologia alla base della propria attività: gli Jenisch erano definiti “vagabondi”, “una piaga” della società. Poco importava il loro comportamento reale; ciò che contava, secondo Siegfried, era la loro appartenenza etnica.

Successivamente, nel 1970, il governo svizzero condusse una politica semi-ufficiale che verteva a istituzionalizzare i genitori Jenisch come “malati di mente” e a fare adottare i loro figli da cittadini svizzeri, nel tentativo di eliminare la cultura zingara in nome del miglioramento della società locale. Mariella Mehr, nata a Zurigo nel 1947 da una famiglia Jenisch, racconta del programma attuato dall’associazione svizzera Pro Juventute dal 1926 al 1974 per il recupero dei bambini di strada e poi tradotto in un dramma nazionale, accusato di genocidio.

La causa legale si concluse nel 1987: la Confederazione elvetica si scusò con gli Jenisch, riconoscendo la propria responsabilità morale e politica. Non si conosce il numero esatto delle vittime, principalmente bambini, che sembra oscillare tra i 585, certificati dagli archivi della Pro Juventute, in gran parte secretati per un secolo, e i 2.000 stimati. L’intervento eugenetico, tramite l’impedimento di matrimoni, la limitazione delle nascite, le sterilizzazioni, le privazioni della libertà, incise pesantemente sulla comunità Jenisch che ne uscì ferita nello spirito e indebolita demograficamente. Tra i casi noti, ricordiamo Robert Huber, politico svizzero di etnia Jenisch, che da bambino fu lui stesso vittima del programma “Figli della strada”. Ruth Dreyfuss, ex consigliere federale e presidente della Confederazione svizzera nel 1999, affermò in proposito: «Le conclusioni degli storici non lasciano spazio al dubbio: […] è un tragico esempio di discriminazione e persecuzione di una minoranza che non condivide il modello di vita della maggioranza.»

Fonte: https://corriereitalianita.ch/gli-jenisch-in-svizzera-una-storia-di-persecuzioni/


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Nella scuola l'inclusione come un faro

Nella scuola l’inclusione come un faro

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«La differenza, se c’è, è piuttosto un problema nostro, di adulti. Lo sguardo dei ragazzi è uno sguardo che non etichetta». Non potrebbe essere più chiaro, Paolo Iaquinta, per illustrare la sua visione di diversità, di integrazione ed inclusione nel contesto scolastico. A Minusio, sede di Scuola media di cui è direttore, è partito quest ’anno in una classe di prima un progetto inclusivo che favorisce una riflessione a tutto campo sul tema e sulla sua evoluzione nella scuola ticinese.

Questione di attitudine
«Inclusione – dice Iaquinta – non è soltanto strutture, quindi dare un 120%, con un buon docente di pedagogia speciale e un valido appoggio con un secondo docente; non è soltanto avere delle tecniche di differenziazione pedagogica. È, in primo luogo, un’attitudine dell’insegnante, una visione del mondo. Quello stesso mondo fatto di tante persone diverse che convivono in una società unica. Ogni singola classe è una piccola società, che allo stesso modo deve e può accogliere persone diverse fra loro».

Sviluppo di competenze: nessun pregiudizio

Paolo Iaquinta ricorda uno studio del Centro innovazione e ricerca sui sistemi educativi (Cirse) della Supsi, secondo cui «per un allievo di scuola ordinaria il fatto di essere inserito in una classe inclusiva non pregiudica assolutamente lo sviluppo di competenze. Questo ci ha fatto
molta forza, anche per andare a parlare con i genitori, i quali iscrivono i loro figli ad una Scuola media, non ad una Scuola media inclusiva».

Mengoni: ‘Disabilità, cambiato il paradigma’

Secondo il capo della Sezione della pedagogia speciale Mattia Mengoni, «in tema di disabilità, da tempo è cambiato il paradigma: la disabilità non appartiene più alla persona, ma si esprime attraverso il contesto che essa frequenta. Quindi quanto più è accogliente un ambiente, tanto meno emergono determinate caratteristiche intese come difficoltà e tanto più favoriamo lo svolgimento di un’attività». È quindi fondamentale, per Mengoni, «chiedersi cosa può fare il contesto per rendersi più accessibile.
E questo vale anche per la scuola. Non è più sufficiente una dimensione integrativa ancorata già alla vecchia Legge del ’75, ma si punta su diverse forme di sostegno.

‘Per fare passi avanti bisogna crederci’

Un’altra questione è centrale: quella legata al territorio di appartenenza. A molte classi inclusive appartengono ragazzi slegati da quella specifica realtà. «Idealmente, se si parla di inclusione, bisognerebbe partire dal presupposto che l’inclusione si fa nel proprio Comune di domicilio, o almeno nel proprio comprensorio – ammette Mengoni –. Il fatto è che il numero di allievi e la disponibilità delle sedi, per questioni di numeri e di sensibilità storica, non permette ancora di creare dei gruppi con un’attinenza territoriale.

Più si sarà in grado di organizzare un sistema scolastico che risponde al proprio interno aquesti bisogni, «tanto più riusciremo a garantire che ogni Scuola media risponda alle esigenze degli allievi del proprio comprensorio.

Importantissimo, infine, è «pensare all’inclusione come a una misura didattica valutabile e implementabile, e non unicamente come una questione ideologica».

Fonte:

https://www4.ti.ch/fileadmin/DECS/DS/SPS/documenti/Nella_scuola_l_inclusione_come_un_faro_La_Regione_17.11.2020.pdf


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L'educazione inclusiva

L’educazione inclusiva

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1. Che cos’è l’educazione inclusiva?

Un sistema educativo “inclusivo” può essere creato solo se le scuole tradizionali diventano più inclusive – in altre parole, se diventano migliori nell’educare tutti i bambini delle loro comunità. Le scuole ordinarie con un orientamento inclusivo sono il mezzo più efficace per combattere gli atteggiamenti discriminatori, creare comunità accoglienti, costruire una società inclusiva e raggiungere l’istruzione per tutti. L’istruzione per tutti deve tenere conto dei bisogni degli svantaggiati, dei bambini che lavorano, degli abitanti delle zone rurali remote e dei migranti, delle minoranze etniche e linguistiche, dei bambini, dei giovani e degli adulti colpiti da conflitti, HIV e AIDS, fame e cattiva salute, e di quelli con disabilità o bisogni speciali di apprendimento.

L’inclusione è quindi vista come un processo per affrontare e rispondere alla diversità dei bisogni di tutti i bambini, i giovani e gli adulti attraverso una maggiore partecipazione all’apprendimento e alle comunità, e riducendo ed eliminando l’esclusione all’interno e dall’educazione.  Si basa sulla convinzione che è responsabilità del sistema educare tutti i bambini.

2. Perché il mondo ha bisogno di un’educazione inclusiva?

Un’attenta pianificazione di un’educazione inclusiva può portare a miglioramenti nel rendimento accademico, nello sviluppo sociale ed emotivo, nell’autostima e nell’accettazione dei pari. L’inclusione di studenti diversi in classi e scuole tradizionali può prevenire la stigmatizzazione, gli stereotipi, la discriminazione e l’alienazione. Pensare all’educazione degli studenti con disabilità o bisogni speciali dovrebbe essere uguale a pensare a ciò di cui tutti gli studenti possono avere bisogno. Tutti gli studenti hanno bisogno di metodi di insegnamento e di meccanismi di supporto che li aiutino ad avere successo e ad essere parte di qualcosa.

3. Perché non scegliere scuole “speciali” o segregate invece?

Perché le scuole segregate raramente preparano le ragazze e ragazzi all’interno di esse alla realtà del mondo esterno. L’educazione inclusiva può avere un’influenza positiva su tutti i bambini. Inoltre, l’eliminazione delle strutture parallele e l’utilizzo più efficace delle risorse in un unico sistema globale possono portare ad un risparmio di energia.  

4. Ma l’educazione inclusiva non è molto costosa?

Garantire che le classi e le scuole siano adeguatamente dotate di risorse e sostegno comporta costi per adattare i curricula, formare gli insegnanti, sviluppare materiali appropriati e pertinenti per l’insegnamento e l’apprendimento e rendere l’istruzione accessibile. Poiché pochi sistemi si avvicinano all’ideale, stime affidabili del costo totale sono scarse. L’analisi economica costi-benefici è quindi difficile, anche perché i benefici sono difficili da quantificare e da spalmare sulle generazioni.

Una logica economica dell’educazione inclusiva, pur essendo preziosa per la pianificazione, non è sufficiente. È stato sostenuto che discutere i benefici dell’educazione inclusiva equivale a discutere i benefici dell’abolizione della schiavitù (Bilken, 1985) o dell’apartheid (Lipsky e Gartner, 1997). L’inclusione è un imperativo morale e una condizione per raggiungere tutti gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile , in particolare  società sostenibili, eque e inclusive. È un’espressione di giustizia, non di carità, qualunque siano le differenze, biologiche o meno, e qualunque sia la loro descrizione.

Inoltre vi sono molti esempi in cui l’educazione inclusiva è risultata meno costosa dell’educazione “speciale” o “segregata”. In Pakistan, per esempio, l’UNESCO ha scoperto che le scuole speciali sono state 15 volte più costose per gli alunni rispetto alle scuole tradizionali che includono i bambini con disabilità. Altri esempi da Bangladesh, Cambogia, India, Nepal e Filippine suggeriscono che il rendimento dell’investimento nell’istruzione per le persone con disabilità sia da due a tre volte superiore a quello di chi non ha disabilità.

5. Perché più scuole non praticano l’educazione inclusiva?

Tra i motivi più comuni ci sono: percezioni negative del potenziale di apprendimento dei bambini disabili e delle altre categorie escluse, insegnanti poco preparati, mancanza di risorse- compresi i libri di testo in Braille- e la mancanza di capacità del governo.

6. Come posso aiutare?

Ci sono molti modi in cui le persone e le organizzazioni possono aiutare. I grandi donatori e altre ONG possono aiutare aumentando i loro aiuti per l’istruzione e rendere la risposta alla diversità una condizione necessaria per tutti i finanziamenti e progetti futuri. Ma anche i singoli possono aiutare!

Si può diffondere il messaggio che l’educazione inclusiva funziona e che milioni di bambini con disabilità ed esclusi, che attualmente non vanno a scuola, meritano un’educazione di qualità che aiuti loro e le loro società, a raggiungere il pieno potenziale.

Fonti:

Global Education Monitoring Report- Unesco:

https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000374817/PDF/374817spa.pdf.multi

Light for the world:

https://www.light-for-the-world.org/sites/lfdw_org/files/download_files/inclusive_education_qa_final_acc.pdf


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Legion d'Onore, Corrado Augias nell'ambasciata di Francia restituisce il riconoscimento: "Un gesto simbolico e amaro" 1

Legion d’Onore, Corrado Augias nell’ambasciata di Francia restituisce il riconoscimento: “Un gesto simbolico e amaro”

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L’ambasciatore Masset lo riceve: “Francia impegnata sui diritti umani”. Lui replica: “Si impegni in modo più visibile per Regeni e Zacky”

ROMA – Corrado Augias esce di mattino presto con la Legion d’Onore francese nello zaino. La custodisce in un cofanetto di pelle rossa con la cornice d’oro, che apre con cura e tristezza nel giardino di casa, a Roma. È un ordine istituito da Napoleone Bonaparte nel 1802, quando era console. “È l’onorificenza più alta della Repubblica francese, un altissimo riconoscimento al valore militare, per questo c’è il nastro rosso, che richiama il sangue. Ma è un riconoscimento anche ai meriti sociali e civili”, spiega. Non ne vuole fare una questione personale: “Non ricordo nemmeno l’anno preciso in cui l’ho ricevuta. Mi fece molto piacere, certo, ma il mio gesto amaro era inevitabile. Lo dedico alla memoria di Giulio Regeni, il giovane accademico torturato e ucciso in Egitto, i dettagli di quelle torture sono stati resi noti dalla Procura di Roma proprio mentre il Presidente Al-Sisi riceveva da Macron questa stessa Legion d’Onore. Ma lo dedico anche alla Francia, patria d’origine della mia famiglia e dell’Illuminismo che ha illuminato, appunto, il mondo, ma ogni tanto ha bisogno di essere riacceso”.

Il gesto è la riconsegna della Legion d’Onore all’ambasciata francese di Roma, annunciato in una lettera aperta ieri sulla prima pagina di Repubblica. Con un tweet, l’ambasciatore francese Christian Masset ha risposto a quello sfogo: “Ho grande rispetto per Corrado Augias, la Francia è in prima linea per i diritti umani e non fa compromessi. Più casi sono stati discussi durante la visita del Presidente Al-Sisi a Parigi, nel modo più adeguato e con più efficacia”.

Fonte:https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/14/news/augias_legion_d_onore-278293345/

blob:https://video.repubblica.it/60c9bb2b-ea2b-4a22-9511-744e0c78389d


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FENIX, il nuovo Museo della Migrazione ha aperto a Rotterdam

FENIX, il nuovo Museo della Migrazione ha aperto a Rotterdam

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“Questa è una storia universale. Le persone a un certo punto della loro vita prendono una decisione, sia che sia costretta dalla guerra, dalla povertà, da ragioni religiose o da qualcos’altro. Decidono di mettere tutto quello che hanno in una o due valigie e di fare questo viaggio in un nuovo mondo e ricominciare tutto da capo. Quello che vogliamo fare è capire l’emozione e mostrare l’emozione.”, con queste parole il Presidente della Fondazione Droom en Daad, il signor Pijbes, ex direttore generale del famoso Rijksmuseum di Amsterdam, ha presentato il nuovo Museo della Migrazione che ha aperto a Rotterdam.

Un’emozione che inizia dal luogo scelto come sede del museo, il magazzino Fenix ha infatti una storia particolare. È stato costruito nel 1923 ed era considerato il più grande magazzino del mondo, nel tempo la sua storia si è intrecciata con quella della città di Rotterdam, compresa la distruzione in seguito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, a cui sono seguite numerose e continue riparazioni negli anni ’40 e ’50 del XX secolo.

Il museo sarà il primo progetto culturale europeo dell’architetto Ma Yansong, fondatore di MAD Architects. Per preservare l’identità storica del luogo e dell’edificio, l’architetto ha deciso di conservare la struttura originale in cemento svuotandone però il centro. Nella parte centrale dell’edificio sarà inserita infatti una scenografica scala a forma di tornado. Si tratta in realtà di due scale a chiocciola che si muovono nello spazio con ritmi e raggi di curvatura diversi, per poi congiungersi nella piattaforma di osservazione superiore. Le scale si sviluppano quindi dal pianoterra fino a sfondare il tetto e proseguire oltre, rompendo la staticità e la grande scala del magazzino originale e dando vita, nei diversi piani dell’edificio, a spazi più intimi e di dimensioni più contenute. “Da lontano, la piattaforma e la scala sembrano un’unica entità” ha spiegato l’architetto Ma Yansong aggiungendo poi che viste da vicino queste strutture saranno percepite come un’opera scultorea da esplorare e che non solo rappresentano la storia del luogo e della migrazione europea, ma simboleggiano anche il futuro della città di Rotterdam.

Fonti

https://design.fanpage.it/fenix-il-nuovo-museo-della-migrazione-ha-aperto-a-rotterdam/

https://www.floornature.it/mad-architects-fenix-museum-migration-iniziano-i-lavori-rott-15889/

Visita il sito del Fenix

https://fenix.nl/en/fenix-english/


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Un futuro incerto per i migranti extraeuropei in Svizzera 3

Un futuro incerto per i migranti extraeuropei in Svizzera

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Terra di immigrazione da decenni, la Svizzera non sembra però essere un’allieva modello in termini di integrazione. Secondo uno studio comparativo internazionale, è ancora tra i paesi del Vecchio Continente che fanno meno sforzi per fornire stabilità a lungo termine agli immigrati non europei.

La Svizzera non offre un futuro sicuro agli immigrati, afferma lo studio. Pubblicato mercoledì, il MIPEX (Migrant Intergration Policy Index) confronta le politiche di integrazione di 52 paesi e stila una classifica. La Confederazione si colloca al 25° posto, dietro a Francia, Germania, Italia e Regno Unito. Ottiene 50 punti su 100, pari a sette o otto punti in meno del punteggio medio degli altri paesi dell’Europa occidentale.

Oltre l’80% della popolazione straniera residente in Svizzera proviene da un Paese europeo. Beneficiando dell’accordo sulla libera circolazione delle persone è libera di venire a lavorare e stabilirsi nella Confederazione. Per i cittadini non europei, invece, la situazione è complicata.

Lo studio colloca la Svizzera tra i paesi che offrono ai migranti di paesi terzi delle possibilità di integrazione temporanea, ma non la garanzia di potersi stabilire in modo permanente. Una posizione simile a quelle di Austria e Danimarca. “Questi paesi compiono solo metà del percorso per garantire ai migranti diritti fondamentali e pari opportunità. Le loro politiche incoraggiano la popolazione a vedere gli immigrati come stranieri e non come persone uguali e vicini di casa”, commentano i ricercatori.

L’indice mostra inoltre che la politica di integrazione della Confederazione nell’ultimo decennio non è cambiata. “L’approccio svizzero s’inserisce in una forma di continuità”, osserva Gianni D’Amato, direttore del Forum svizzero per lo studio delle migrazioni (SFM), che partecipa all’elaborazione del MIPEX. La Svizzera vuole usufruire dei vantaggi economici della migrazione, ma il suo obiettivo non è l’integrazione a lungo termine, analizza il professore. “Il messaggio che il paese rivolge ai migranti è: siete i benvenuti, ma non in troppi e non per tutta la vita. Occorre mantenere il controllo per poter limitare il numero di immigrati”, afferma.

Fonte: https://www.swissinfo.ch/ita/politica/confronto-internazionale_un-futuro-incerto-per-i-migranti-extraeuropei-in-svizzera/46216046

Per maggiori informazioni

Due milioni di stranieri in Svizzera, ma chi sono?https://www.swissinfo.ch/ita/serie-migrazione-parte-1-_due-milioni-di-stranieri-in-svizzera-ma-chi sono/42412006#:~:text=Oltre%20l’80%25%20proviene%20da,tutti%20gli%20stranieri%20in%20Svizzera.


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Non ha accolto i migranti: la corte Ue condanna l'Ungheria 2

Non ha accolto i migranti: la corte Ue condanna l’Ungheria

Il diritto dell’Unione è stato violato in vari punti, secondo la sentenza

BRUXELLES – «L’Ungheria è venuta meno agli obblighi del diritto dell’Unione europea in materia di procedure di riconoscimento della protezione internazionale e di rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare».

Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea in una sentenza pubblicata oggi. In particolare ha violato del diritto dell’Unione per «la limitazione dell’accesso alla procedura di protezione internazionale, il trattenimento irregolare dei richiedenti in zone di transito nonché la riconduzione in una zona frontaliera di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, senza rispettare le garanzie della procedura di rimpatrio».

La Corte ha di fatto accolto la parte essenziale del ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione europea contro l’Ungheria. Ed ha stabilito che «è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale, in quanto i cittadini di paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la loro domanda».

Per la Corte è poi una violazione delle norme europee anche «l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda», che «costituisce un trattenimento».

Infine, l’Ungheria è venuta meno agli obblighi della direttiva “rimpatrio”, «in quanto la normativa ungherese consente di allontanare i cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare senza rispettare preventivamente le procedure e le garanzie previste da tale direttiva».

Fonte:https://www.tio.ch/dal-mondo/cronaca/1481286/unione-ungheria-procedura-diritto-ue


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