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19 Agosto 2021 | La giornata internazionale per l’aiuto umanitario, e un ricordo a Gino Strada

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19 Agosto 2021 | La giornata internazionale per l’aiuto umanitario, e un ricordo a Gino Strada

19 Agosto 2021 | La giornata internazionale per l’aiuto umanitario, e un ricordo a Gino Strada

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Di Letizia Pinoja

“Spero che si rafforzi la convinzione che le guerre, tutte le guerre sono un orrore. E che non ci si può voltare dall’altra parte, per non vedere le facce di quanti soffrono in silenzio.”

Gino Strada, “Pappagalli verdi: cronache di un chirurgo di guerra”, Feltrinelli, 1999

Quest’anno – in data il 19 agosto, in cui si celebrala giornata internazionale dedicata all’aiuto umanitario – le Nazioni Unite hanno deciso di commemorare le vittime delle crisi umanitarie causate dal cambiamento climatico.[1] Infatti, gli allarmi lanciati negli ultimi mesi da esperti scientifici e attivisti per il clima inducono a pensare che i conflitti armati generati dai cambiamenti climatici non faranno altro che aumentare. In questi giorni si sente spesso parlare dell’Afghanistan, paese al collasso. Spesso però si dimentica di menzionare che anche le conseguenze del cambiamento climatico hanno avuto un ruolo fondamentale in questa guerra: l’emergenza di lotte etniche per la scarsità delle risorse porrebbe fine ad ogni speranza di un futuro pacifico.[2]

Di questo rischio ne era ben cosciente Gino Strada, al quale dedichiamo un pensiero in questo giorno di commemorazione. Ed è proprio sull’Afghanistan che Strada si è espresso prima di lasciarci: “Ho vissuto in Afghanistan complessivamente 7 anni: ho visto aumentare il numero dei feriti e la violenza, mentre il Paese veniva progressivamente divorato dall’insicurezza e dalla corruzione. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista.”[3] Non è però tutto un fallimento. Anzi, grazie alla sua dedizione e al suo coraggio, si stima che una persona su sei abbia ricevuto cure mediche nei vari centri ambulatoriali di Emergency, totalizzando più di 7 milioni di persone curate in 22 anni di presenza sul territorio.[4]

“Gli ospedali e lo staff di Emergency – pieni di feriti – continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”: Testimoniava Gino Strada nel suo ultimo intervento al La Stampa qualche giorno fa.[5] Il suo animo buono l’ha sempre spinto a non arrendersi davanti ai pericoli pur di salvare vite umane perché, come disse lui un giorno: “Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare.”

In questa giornata dedicata a tutti coloro che si battono e si sono battuti per alleviare le sofferenze delle crisi umanitarie, è allora giusto includere Gino, insieme a tutto lo staff di Emergency e al popolo afghano, a quelli che lui stesso ha definito “veri eroi di guerra”. 


Fotografia © https://www.emergency.it/gino-strada-chirurgo-fondatore-emergency/

[1] https://www.worldhumanitarianday.org/front

[2] https://berghof-foundation.org/news/climate-and-conflict-as-a-vicious-cycle-the-case-of-afghanistan

[3] https://www.lastampa.it/topnews/lettere-e-idee/2021/08/13/news/cosi-ho-visto-morire-kabul-1.40594569

[4] https://www.emergency.it/cosa-facciamo/afghanistan/

[5] https://www.lastampa.it/topnews/lettere-e-idee/2021/08/13/news/cosi-ho-visto-morire-kabul-1.40594569


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Vent’anni di guerra e un’amara conclusione

Vent’anni di guerra e un’amara conclusione

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Non c’è pace per la terra in cui i talebani hanno ‘rubato il tempo’

Pubblicato da Naufraghi di Lucia Greco

Kabul è caduta. Non sono stati sufficienti gli 83 miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti per formare un esercito locale: l’avanzata dei talebani è stata inarrestabile. Le forze di sicurezza afghane, equipaggiate e formate dagli alleati per anni, sono capitolate, in alcuni casi senza nemmeno opporre resistenza. Difficile giustificare un tale epilogo innanzi alle 3577 vittime della coalizione internazionale e alle oltre 70’000 tra i civili afghani dal 2001 ad oggi. Ne esce sconfitta la politica estera occidentale a guida statunitense e ne esce sconfitta la NATO che ancora faticava a riprendersi dall’accusa di morte cerebrale lanciata da Emmanuel Macron due anni fa.

Recita un ormai famoso proverbio afghano: voi avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo. Hanno saputo aspettare i talebani e sono riusciti a conquistare nuovamente il potere. Vent’anni di impegno militare erano invece diventati troppo ingombranti per l’avanzare del ticchettio degli orologi della Casa Bianca. Se quella in Afghanistan rappresenta l’amara sconfitta del mondo liberale che vuole esportare la democrazia, essa è soprattutto la vittoria dell’interpretazione più estrema del fondamentalismo sunnita. La nascita dell’Emirato Islamico dei talebani fornisce infatti la base territoriale di cui la Jihad era stata privata grazie all’intervento americano nell’Afghanistan di Osama Bin Laden prima, e a quello della coalizione internazionale contro il califfato di Al-Baghdadi in Iraq e Siria poi. Gli eventi che questa notte sono culminati nella presa del palazzo presidenziale, sono il risultato della resilienza mostrata dai Mujaheddin negli anni e della parallela debolezza delle istituzioni afghane, considerate corrotte ed incapaci di guadagnare credibilità presso il proprio popolo nonostante il sostegno internazionale e l’imponente flusso di aiuti esteri. Un attore, quello del governo di Ghani, talmente debole da rimanere escluso persino dai negoziati di Doha, dove i talebani sono riusciti ad ottenere ciò che più necessitavano, ovvero il ritiro delle truppe dell’Alleanza Atlantica. Ritiro, quest’ultimo, che è stato il preludio dello sfacelo dell’esercito nazionale afghano, abituato a vedere ogni operazione pianificata nei dettagli e nella logistica dagli ufficiali NATO.

“Questa non è Saigon” ha affermato il Segretario di Stato americano Blinken per contrastare gli inevitabili paragoni con l’ultima grande débâcle americana. È vero: questo non è il Vietnam, questo è l’Afghanistan. Per gli americani è la guerra più lunga mai combattuta, è l’11 settembre, è la crociata contro il terrorismo. Per i britannici è un impegno che dura ormai da quasi due secoli: è la faticosa delimitazione ottocentesca della linea Durand con il vicino Pakistan, è l’avamposto per contrastare la rivale potenza russa nel Grande Gioco in Asia, sono le tre guerre anglo-afghane che hanno visto generazioni di inglesi partire per il fronte durante più di cento anni.

Questa è una terra che non conosce pace, crocevia di interessi geopolitici e foriera di conflitti che superano i confini nazionali. Quello che accade in Afghanistan è un problema di sicurezza che fa tremare tutti i paesi, occidentali e non. Per gli stati vicini, il flusso di rifugiati e i militari in fuga aumenta il rischio di infiltrazioni jihadiste. Così Ankara, per fermare l’arrivo di profughi che si riversa come un fiume in piena verso le province turche di Van e Igdir, si adopera per costruire un muro al confine con l’Iran. Mosca, che ha già conosciuto la complessità logorante di questi territori durante la guerra russo-afghana del 1979-1989, teme per la sicurezza delle ex repubbliche sovietiche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan e organizza esercitazioni militari al confine. Non solo il Cremlino, ma diversi governi, tentano la via del dialogo con i talebani, i quali, ancor prima di ultimare la conquista del paese, ottengono la legittimazione sul piano delle relazioni diplomatiche venendo ricevuti a Mosca, Teheran, Ashgabat e infine a Tianjin, in Cina, fino ad arrivare a Pechino il 28 luglio scorso. Al governo cinese fanno infatti gola i diritti estrattivi nella regione e tali interessi economici nel quadro della pretenziosa e poderosa operazione di politica estera della via della seta, sarebbero garantiti solo attraverso una cooperazione stabile con l’amministrazione di Kabul. La Cina inoltre, si muove in modo da scongiurare il rischio che l’Afghanistan diventi una base logistica per i separatisti e i jihadisti uiguri.

Non ha più senso dunque puntare il dito verso la vicina Islamabad, accusata più volte di supportare i talebani. Oramai tutte le potenze regionali pongono le basi per una futura coabitazione con quello che si può definire il nuovo governo afghano. Non resta che accettare che l’inevitabile si sia compiuto: a dispetto della moltitudine delle realtà che costellano l’universo del fondamentalismo islamico, i talebani si sono imposti a guida della nuova base logista per il reclutamento del terrorismo della Jihad globale. Torna, per il popolo afghano, il medioevo conosciuto tra il 1996 e il 2001. Sorge un nuovo giorno in questo paese senza luce, dove orde di giovani verranno privati della libertà donata loro dallo studio garantitogli negli ultimi anni di speranza. Una speranza tradita ancora una volta, dopo decenni di guerre civili, susseguirsi di regimi politici e del terrore, interventi stranieri presunti portatori di una pace a lungo mai mantenuta. Una speranza che sarà tradita ogni volta che una donna verrà frustata perché dei sandali timidamente faranno capolino sotto il burqa. Una speranza che sarà tradita ogni qual volta un richiedente asilo verrà rimpatriato nella terra della Sharia. Non passerà ora in cui i diritti umani non verranno calpestati. E mentre gli occidentali evacuano il paese, i disperati civili vengono lasciati a terra. Non ci sono aerei per chi è nato e cresciuto in Afghanistan, per chi ha osato rivestire una carica pubblica, apparire in televisione, collaborare per lo sviluppo della libertà di espressione, di stampa, per i diritti civili e politici, economici e sociali. Nonostante le promesse delle ultime ore dei governi occidentali, che suonano vuote come quelle degli ultimi venti anni, arrivano le prime notizie di esecuzioni di traduttori che hanno osato collaborare con la NATO. Il popolo afghano è stato ancora una volta abbandonato al suo destino.


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La fame come strategia di guerra

La fame come strategia di guerra

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La violazione dei diritti umani nel Tigrai si aggiunge alla fame e all’insicurezza alimentare

Pubblicato da Naufraghi.ch di Letizia Pinoja

Fra gli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 vi è quello di porre fine alla fame nel mondo. Tuttavia, ad oggi, nella regione semi-autonoma del Tigrai (Etiopia), 350’000 persone soffrono la fame. Altri 5,5 milioni di persone vivono in condizioni di grave insicurezza alimentare. Ma cosa ha reso l’Etiopia, storicamente una delle regioni più fertili del mondo, il teatro di quella che, secondo gli esperti, rischia di essere la peggiore crisi alimentare del decennio?

Nel Novembre 2020 l’esercito federale etiope entrava nel Tigrai per disarmare il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (FPLT), entità considerata ribelle da Addis Abeba. Le cause delle tensioni fra la regione del Tigrai e il governo centrale sono varie e di lunga data. Di particolare importanza è stata l’elezione del premier Abiy Ahmed nel 2018 e lo smantellamento del dominio tigrè a favore di una coalizione governativa non comprendente il Tigrai. La miccia che ha fatto scoppiare gli scontri è stata il posticipo delle elezioni nazionali causato dalla pandemia. Lo stato federato del Tigrai si è infatti opposto a tale decisione, definendola incostituzionale e indicendo delle elezioni in settembre del 2020. Un anno dopo essere stato insignito del Premio Nobel per la Pace, il Premier etiope ha reagito alla contestazione tigrè invadendo la regione nel Novembre 2020.

Le perplessità riguardo all’onorificenza di Abiy Ahmed risalgono fin dal momento della premiazione alla fine del 2019, in particolare per quanto riguarda la pace con l’Eritrea. Un conflitto nato negli anni Novanta con l’indipendenza di quest’ultima dall’Etiopia, esso si fonda sulla contesa territoriale di una parte della regione del Tigrai. Essendo il FPLT “nemico comune” dei governi eritrei e etiopi, varie sono state le accuse contro Abiy Ahmed di opportunismo politico. Il coinvolgimento delle truppe eritree nel conflitto in Tigrai non ha fatto che corroborare tali accuse, e le gravi violazioni dei diritti umani emerse nel conflitto mettono sempre più in dubbio la legittimità dell’onorificenza.

Infatti, la violenza che pervade il Tigrai da novembre ha conseguenze nefaste per la popolazione locale. Recentemente, le agenzie dell’ONU (FAO, WFP e UNICEF) hanno denunciato il rischio imminente di carestia nella regione. Oltre alle sfide poste dal cambiamento climatico – invasione di locuste, inondazioni e siccità – la sicurezza alimentare della regione è messa a dura prova da quella che l’Associated Press (AP) ha denunciato come “fame quale strategia di guerra”. Quest’ultima è perpetrata dalle truppe etiopi ed eritree, accusate di bloccare i convogli di aiuti umanitari.

Inoltre, l’AP ha denunciato gli eserciti di impedire ai contadini tigrè di coltivare le proprie terre rubando sementi, uccidendo bestiame e saccheggiando materiale agricolo. Gli operatori di Medici Senza Frontiere (MSF) hanno infine segnalato come le distruzioni sistematiche di case, pozzi, ospedali e altre infrastrutture fondamentali alla sopravvivenza, abbia spinto più di 40’000 persone a lasciar le proprie terre per cercare rifugio nel vicino Sudan o affrontare il pericoloso viaggio alla volta dell’Europa.

Gli eserciti etiopi ed eritrei stanno volontariamente inducendo una carestia. Tali pratiche costituiscono una grave violazione del diritto universale ad un’alimentazione sana. Indirettamente, sono tuttavia vari i diritti umani violati. Per esempio, la fame impedisce ai bambini di andare a scuola, priva le persone del lavoro e della salute. La fame compromette il funzionamento economico e sociale della società, e ne nega lo sviluppo. Le carestie conducono a miseria e violenza.

La situazione nel Tigrai è drammatica, ma non ancora irreparabile. Il 29 giugno 2021 il governo etiope ha dichiarato unilateralmente un “cessate il fuoco”, ha ritirato le proprie truppe e il FPLT è rientrato nel capoluogo Macallé. Si auspica che gli aiuti umanitari, benché limitati nelle risorse, possano raggiungere la popolazione tigrè al più presto e porre fine alla disperazione di 5,5 milioni di persone.

Fotografia © Ben Curtis/AP


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12 Agosto 2021 | Giornata internazionale della gioventù

12 Agosto 2021 | Giornata internazionale della gioventù

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Di Letizia Pinoja

Ogni anno il 12 agosto si celebrano i giovani di tutto il mondo. Lo scopo è quello d’incitare una migliore presa di coscienza e implementazione dei loro diritti fondamentali.[1]

Quest’anno il focus si è posato sul sistema alimentare mondiale, e su come, senza la partecipazione attiva dei giovani, la sua trasformazione verso un mondo più equo e sostenibile non sarà fattibile.[2] Come dichiarato dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, i giovani sono la nostra unica risorsa per migliorare l’avvenire dell’umanità e, per questo motivo, vanno ascoltati e inclusi nei processi decisionali.[3]

Ma è proprio a livello di sicurezza alimentare che i giovani costituiscono la categoria più vulnerabile. Fra gli obiettivi sostenibili dell’Agenda 2030 vi è quello di porre fine alla fame nel mondo.[4] Tuttavia, negli ultimi anni l’insicurezza alimentare ha ricominciato a crescere. Nel 2020, 149 milioni di bambini di età inferiore ai 5 anni erano sottosviluppati, 45 milioni troppo magri per la loro altezza, mentre che 39 milioni di bambini erano in sovrappeso. Più in generale, 3 miliardi di persone nel mondo, bambini compresi, non hanno potuto nutrirsi in modo sano.[5]

Fra le cause di questa crescente insicurezza alimentare vi sono gli effetti del cambiamento climatico. Eventi atmosferici anomali come inondazioni e incendi distruggono i raccolti e compromettono la fertilità dei terreni. L’aumento delle temperature favorisce l’emergenza di malattie e parassiti negli allevamenti e nei raccolti.[6]

Nelle ultime settimane la Svizzera, come il resto dell’Europa, è stata teatro di eventi climatici estremi quali forti piogge, grandine e inondazioni. I danni sono ingenti ma un paese ricco come la Svizzera riuscirà a far loro fronte.[7] La situazione è però diversa per i paesi più poveri del mondo: la condizione economica già fortemente precaria è messa a dura prova dalle catastrofi ambientali che attanagliano le loro terre, le quali, a loro volta, incrinano la sempre più incerta sicurezza alimentare della popolazione. Per di più, i paesi con un rischio di carestia e/o malnutrizione più elevato sono coloro che generano il minor tasso di anidride carbonica.[8]

Ed è quindi questo uno dei messaggi della giornata internazionale della gioventù di quest’anno: la gioventù mondiale deve unirsi e lottare insieme per un futuro più prospero ed equo. Per poterlo fare, deve venir data la parola ai giovani, devono essere interpellati e inclusi nei processi decisionali. Il movimento globale lanciato con lo sciopero per il clima ne è la dimostrazione:[9] la gioventù mondiale non starà in silenzio di fronte alla distruzione del loro futuro. E i governi non possono che ammirarla e ascoltarla.


Photo credits: © LaRegione https://www.laregione.ch/cantone/ticino/1369836/il-prossimo-sciopero-per-il-clima-sara-contro-l-inquinamento-bancario

[1] https://www.un.org/development/desa/youth/world-programme-of-action-for-youth.html

[2] https://www.un.org/development/desa/youth/iyd2021.html

[3] https://www.un.org/development/desa/youth/wp-content/uploads/sites/21/2021/08/YouthDay.French.pdf

[4] https://www.eda.admin.ch/agenda2030/it/home.html

[5] https://www.unicef.ch/it/lunicef/attualita/comunicati-stampa/2021-07-12/welthunger-steigt-wegen-pandemiejahr-drastisch-copy

[6] https://theecologist.org/2020/aug/21/climate-change-and-global-hunger

[7] https://www.laregione.ch/cantone/ticino/1527523/grandine-danni-genini-perdite-agricoltura-piogge-franchi-sem-maltempo

[8] https://www.weforum.org/agenda/2019/08/climate-change-is-causing-hunger-in-some-of-the-worlds-poorest-countries-and-those-most-at-risk-are-the-least-to-blame/

[9] https://climatestrike.ch/fr/movement


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La timida lotta del governo svizzero per l’eliminazione del lavoro minorile

La timida lotta del governo svizzero per l’eliminazione del lavoro minorile

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di Letizia Pinoja

Il 29 novembre 2020 i Cantoni svizzeri respinsero l’iniziativa popolare per delle multinazionali responsabili. La Svizzera si è opposta all’obbligazione per le aziende di rispettare i diritti umani in tutta la catena di fornitura. Tuttavia, visto il supporto popolare per l’iniziativa (al voto popolare passò al 50,7%), il Consiglio Federale si è impegnato a proporre un controprogetto indiretto. Come esposto dal professore Nicolas Bueno in un articolo sul La Regione[1] della settimana scorsa, il controprogetto consiste nel richiedere alle imprese svizzere, più grandi di 250 dipendenti e con un fatturato maggiore di 40 milioni, di redigere dei rapporti annui su come l’azienda rispetta i diritti umani. Ciononostante, sempre secondo il professor Bueno e varie ONG attive per i diritti umani, questo controprogetto parte con delle basi estremamente fragili e la sua credibilità è minata dalle varie deroghe concesse alle grandi aziende svizzere.

Una delle tematiche più calde in questo senso è il lavoro minorile. La Svizzera si è allineata alla comunità internazionale unendosi all’Alleanza 8.7, un insieme di Stati e attori della società civile, che si impegnano a eliminare la tratta di esseri umani, la schiavitù moderna, il lavoro forzato e il lavoro minorile.[2] L’Alleanza chiede ai membri di «adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alla schiavitù moderna e alla tratta di esseri umani, garantire la proibizione e […] porre fine al lavoro minorile in tutte le sue forme».[3] Questa richiesta stona, però, con l’attuale controprogetto proposto dal Parlamento e sostenuto dal Consiglio Federale. Esso prevede l’obbligo di dovuta diligenza per le aziende che operano in paesi dove il lavoro minorile è una realtà. Eppure, quest’obbligo non prevede dei veri e propri meccanismi di controllo. In fin dei conti, le autorità svizzere si fidano della buona condotta di multinazionali che non hanno un passato immacolato per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani.

Un’altra situazione che fa storcere il naso degli attivisti per il rispetto dei diritti umani è la scelta, del governo svizzero, di non far rientrare il cobalto nella categoria di minerali provenienti da “aree di conflitto e ad alto rischio” o dove “può essere coinvolto il lavoro minorile”.[4] La Repubblica Democratica del Congo (RDC) è il paese con le più grandi riserve di cobalto al mondo.[5] Oltre ai minerali e le pietre preziose, la Repubblica Democratica del Congo è famosa per le guerre uterine che distruggono il paese da decenni. Situazioni di tratta di esseri umani, schiavitù moderna e sfruttamento sessuale non sono rare nella RDC. I più colpiti da questa violenza sono i bambini: vengono arruolati, sotto minaccia o somministrazione di droghe, nei gruppi armati delle varie fazioni ribelli, sfruttati sessualmente e venduti come merce di scambio. Infine, essi vengono obbligati a lavorare fin dalla tenera età nell’industria dell’estrazione di minerali e pietre preziose.[6]

Il 2021 è stato dichiarato l’anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile.[7] La Svizzera si è fin da subito allineata alla comunità internazionale. Questo supporto pare, però, semplicemente simbolico: le posizioni prese ultimamente da governo e parlamento svizzeri cozzano con l’impegno dichiarato nella lotta al lavoro minorile. Per porre fine allo sfruttamento dei bambini non bastano le belle parole; il nostro paese deve impegnarsi ad adottare misure legislative contro le violazioni dei diritti umani delle multinazionali svizzere, anche se queste ultime possono risultar loro scomode e indurle a “scappare” dal suolo elvetico.


[1] https://www.laregione.ch/svizzera/svizzera/1525936/obbligo-diligenza-lavoro-progetto-imprese-federale-consiglio-svizzera-ordinanza-paesi

[2] https://www.seco.admin.ch/seco/it/home/Arbeit/Internationale_Arbeitsfragen/menschenhandel.html

[3] https://www.ilo.org/rome/risorse-informative/comunicati-stampa/WCMS_768733/lang–it/index.htm

[4] https://www.swissinfo.ch/ita/economia/commercio-responsabile-di-cobalto_la-legge-svizzera-sul-commercio-responsabile-deve-includere-il-cobalto/46724936

[5] https://www.statista.com/statistics/264930/global-cobalt-reserves/

[6] https://www.dol.gov/agencies/ilab/resources/reports/child-labor/congo-democratic-republic-drc ; https://www.unicef.org/drcongo/en/press-releases/thousands-children-continue-be-used-child-soldiers

[7] https://endchildlabour2021.org/

Photo Credits © NOELLA NYIRABIHOGO, GJP DRC