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MPT e profilazione razziale

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MPT e profilazione razziale

MPT e profilazione razziale

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Quando la sicurezza a ogni costo stigmatizza le minoranze

In seguito all’omicidio dell’afroamericano George Floyd, migliaia di persone in diverse città del mondo sono scese in piazza contro il razzismo e gli abusi di potere da parte della polizia. L’ondata di proteste ha toccato anche il nostro paese e nell’ultimo anno si sono tenute manifestazioni a Berna, Losanna, Zurigo, Lucerna.

Anche se la situazione in Svizzera non è lontanamente paragonabile a quella degli Stati Uniti per numero e tipologia di casi accertati, non siamo esenti da critiche. Secondo Swissinfo sono tre gli interventi di polizia nel corso dei quali i fermati sono deceduti: un congolese ucciso da un poliziotto nel Canton Vaud nel 2016, un gambiano arrestato per errore e morto in cella nel 2017, un nigeriano immobilizzato e tenuto premuto a terra a Losanna nel 2018.

Kanyana Mutombo, segretario generale dell’organizzazione “Carrefour de réflexion e action sur le racisme anti-Noir” (CRAN), afferma che i neri sono spesso vittime di profiling, ovvero controlli di identità e perquisizioni da parte della polizia in base all’appartenenza razziale. Un rapporto della Commissione Federale contro il Razzismo ha rilevato come un terzo delle persone interessate siano di origine africana, seguite da persone provenienti da Kosovo, Serbia e Turchia, discriminate a seconda della presunta origine straniera.

Stefan Blättler, presidente della Conferenza dei comandanti delle polizie cantonali (CCPCS), sostiene invece che gli interventi degli agenti sono “sempre strettamente regolamentati” e che la formazione dei poliziotti prevede momenti di sensibilizzazione contro la discriminazione razziale.

La profilazione razziale rappresenta una criticità di tipo strutturale lungi dall’esser risolta, nonostante le raccomandazioni delle Nazioni Unite a considerare maggiormente diritti umani e questioni etiche quando si addestrano le nuove leve.

Questa tematica rientra nelle discussioni per la Legge federale sulle misure di polizia per la lotta al terrorismo (MPT), oggetto di referendum e in votazione il prossimo 13 giugno, la quale vorrebbe concedere più strumenti nella prevenzione degli attentati.

Nonostante due soli attacchi terroristici su territorio elvetico, di cui uno ancora presunto, e l’immagine di paese tra i più sicuri al mondo, la Confederazione ritiene che la minaccia resti elevata e che siano necessarie nuove misure.

Giovani Verdi liberali, Giovani Verdi, Gioventù socialista (Giso), Partito Pirata, la piattaforma di organizzazioni non governative svizzere, nonché l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite e la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno criticato apertamente il testo della legge antiterrorismo. Così redatto, infatti, presenta numerose disposizioni che potrebbero rappresentare delle vere e proprie violazioni dei diritti umani, a partire dalla privazione arbitraria della libertà sulla cultura del sospetto (proibita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e della sua applicazione su minori (contravvenendo alla Convenzione sui diritti dell’infanzia).

Secondo Amnesty International Sezione Svizzera il progetto prevede una serie di misure preventive “sproporzionate, perché sono molto restrittive e applicate sulla base di semplici sospetti” e rischia di stigmatizzare parte della popolazione a causa della provenienza etnica o delle sue idee politiche.

Le limitazioni dei diritti fondamentali e umani garantiti dalla Costituzione federale, la definizione di organizzazione terroristica vaga e imprecisa, gli arresti domiciliari per qualsiasi cittadino sulla base di soli indizi, la mancata separazione dei poteri e l’aggiramento del controllo giudiziario, risultano problematici a causa dell’ampio margine di discrezionalità che verrebbe dato alla Fedpol: quest’ultima potrebbe agire basandosi su ipotesi e interpretazioni personali totalmente o in parte arbitrarie.

La polizia ha sempre assunto la funzione di custode dell’ordine, proteggendo i deboli, prevenendo e reprimendo i reati. Un corpo distinto all’interno della società verso il quale i cittadini, tutti, indistintamente, dovrebbero riporre fiducia e sentimenti positivi. L’eventuale adozione delle MPT, però, potrebbe minare la tutela della popolazione, in un rischio di deriva per lo Stato di diritto che si vorrebbe preservare.

Fonte: https://www.swissinfo.ch/ita/economia/profilazione–discriminazione–anche-in-svizzera-esiste-il-razzismo-strutturale/45815164?utm_campaign=swi-rss&utm_source=gn&utm_medium=rss&utm_content=o


La libertà d'opinione messa a rischio

La libertà d’opinione messa a rischio

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Le ambiguità contenute nel disegno di legge antiterrorismo, destano significative preoccupazioni a livello nazionale ed internazionale. L’adozione di definizioni eccessivamente ampie di terrorismo in apposite leggi volte a contrastarne il fenomeno, pone il rischio, laddove tali leggi e misure limitino il godimento dei diritti e delle libertà, di violare i principi di necessità e proporzionalità che disciplinano l’ammissibilità di qualsiasi restrizione ai diritti umani. Questo è il caso del disegno di legge che sarà sottoposto a votazione referendaria il 13 giugno, nel quale è contenuta una definizione di terrorismo vaga e approssimativa. 

L’art. 23e del testo di legge stabilisce infatti che siano da considerarsi attività terroristiche le “azioni tendenti ad influenzare o modificare l’ordinamento dello Stato che si intendono attuare o favorire commettendo o minacciando di commettere gravi reati o propagando paura e timore”. Inoltre, la legge descrive come “potenziale terrorista” colui che, sulla base di indicatori “concreti ed attuali” si “suppone” compirà atti terroristici. 

La presenza di termini elusivi come “si suppone” o la mancanza di una specifica elencazione degli “indicatori concreti ed attuali” rende tali definizioni nebulose e generiche, inadatte ad uno stato di diritto poiché inclini ad incoraggiare un’applicazione arbitraria della legge. Non si può infatti escludere che tale base normativa possa porre i presupposti per interpretare e punire quali “attività terroristiche” anche atti leciti volti ad influenzare o modificare l’ordine costituzionale, come ad esempio il giornalismo indipendente o l’operato dei gruppi di pressione o degli attivisti politici. 

In mancanza di una definizione esauriente ed universalmente concordata di terrorismo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha in più occasioni ribadito che le leggi e le politiche antiterrorismo devono essere circoscritte ai reati che corrispondono alle caratteristiche riconducibili alla lotta al terrorismo internazionale come identificato dal Consiglio di Sicurezza nella risoluzione 1566 del 2004. Quest’ultima definisce “terroristici” quegli atti criminali, in particolare quelli diretti contro i civili, che abbiano l’intento di causare morte o lesioni gravi o presa di ostaggi allo scopo di seminare terrore tra la popolazione, o un gruppo di persone, con lo scopo di intimidire una popolazione o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un atto o ad astenersi dal farlo. 

Dopo una prima lettura delle caratteristiche sopracitate, appare immediatamente chiaro che il disegno di legge proposto dal Parlamento e dal Consiglio Federale non rispetti affatto le linee guida identificate dalla comunità internazionale, poiché non lega la definizione di terrorismo al compimento di attività criminali o all’uso della forza. Si tratta di una definizione anche più ampia di quella ai sensi dell’articolo 260 dello stesso codice penale svizzero, che definisce terrorismo come “atti di violenza criminali volti a intimidire la popolazione o a costringere uno Stato o un’organizzazione internazionale a fare o ad omettere un atto”. 

In mancanza del nesso tra nozione di terrorismo e atto criminale, l’esercizio della libertà di espressione potrebbe essere compromesso. In questo senso, la Confederazione corre ad oggi il tangibile rischio di instituire un modello per la soppressione autoritaria della dissidenza politica, ancor più qualora si consideri che, tranne nel caso degli arresti domiciliari, spetterà alla polizia federale ordinare ed eseguire le misure elencate nel provvedimento legislativo, senza il controllo di un organo giudiziario.

Non essendo espressamente definiti dalla legge quali siano gli “indizi concreti e attuali” che porterebbero la polizia federale a supporre che un individuo possa essere considerato terrorista e quindi sottoposto alle apposite misure atte a prevenirne l’attività, attivisti politici, giornalisti nonché la società civile in senso lato, potrebbero essere dissuasi dall’esprimersi liberamente, limitandosi nelle ricerche online per paura che esse vengano catalogate ed operando una azione di autocensura con un effetto paralizzante sullo sviluppo della comunità intellettuale e di una società civile libera ed informata. Il disegno di legge prevede invero che la fedpol e le competenti autorità cantonali possano trattare dati personali di “potenziali terroristi” degni di particolare protezione, come i dati concernenti le opinioni o attività religiose e filosofiche. 

La lacunosità della legge e il suo potenziale effetto sulla libertà di espressione viola inoltre diverse disposizioni contenute in trattati internazionali di cui la Svizzera è firmataria, in specie: l’art. 19 (libertà di opinione e di espressione) e l’art. 18 (libertà di pensiero, coscienza e religione) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, l’art. 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, nonché l’art. 13 (libertà di formare delle opinioni e di esprimerle) e l’art. 14 (libertà di pensiero, di coscienza e religione) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo (ricordiamo infatti che le misure previste dalla legge sono applicabili anche ai minori a partire dal dodicesimo anno di età). 

Le disposizioni sopracitate prevedono che l’esercizio della libertà di espressione non possa essere soggetto ad autorizzazione o censura e che possa essere regolamentato unicamente dalle limitazioni espressamente stabilite dalla legge, cosa che nel caso di specie non avviene in modo adeguato. La sorveglianza di dati sensibili della popolazione sulla base di sospetti da parte di un’autorità amministrativa (la fedpol) in assenza di una procedura penale, favorisce inoltre la creazione di un sistema di giustizia parallelo in cui i cittadini sono privati delle garanzie procedurali che spettano loro.

È impossibile in tal senso non operare un rimando allo scandalo delle schedature del 1989, quando venne alla luce l’imponente sistema di controllo di massa della popolazione messo in piedi dalle Autorità federali e le Forze di Polizia cantonali. Si stima che vennero raccolti fino a 900.000 dossier che segretamente monitoravano le attività, a partire dagli spostamenti, e raccoglievano informazioni riservate di cittadini, organizzazioni, studi legali e gruppi politici prevalentemente di orientamento politico di sinistra. 

Lucia Greco


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Puniti senza processo

Puniti senza processo

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Una parte delle misure previste dalla legge sulle misure di polizia per la lotta al terrorismo (MPT) vengono già applicate in Francia. La proroga di poteri eccezionali, ben oltre il periodo di incertezza seguito agli attentati di Parigi, ha ampiamente contribuito alla messa in atto di queste sanzioni che hanno delle ripercussioni terribili per le persone di cui sono vittime.

Il caso di Joël

Militante ecologista della prima ora, l’impegno di Joël gli è costato gli arresti domiciliari e una sorveglianza costante, ci racconta il suo quotidiano:

Joël Domenjoud, 34 anni, percorre le stradine deserte di Bure (Mosa), con due baguettes sotto il braccio. Militante ecologista della prima ora, Joël si è visto attribuire agli arresti domiciliari al momento della Conferenza di Parigi sul clima, che si è tenuta nel dicembre 2015. Nel momento in cui il governo dichiara lo stato d’emergenza, Joël esce di casa e ha la sensazione di essere seguito. “Ho girato in tondo nel quartiere, qualcuno mi seguiva”, ricorda. Preso dal panico, sale su un bus e smonta il suo telefono. Quando lo riaccende, due ore più tardi, la sua vicina di casa lo chiama, preoccupata: nelle scale della palazzina sono allineati una ventina di poliziotti, che lo cercano. Joël si reca allora al commissariato dove viene informato che, per tre settimane, non potrà uscire da Malakoff, dove abita.

Ogni giorno degli agenti di polizia si alternavano per seguirlo. A volte l’uomo sente che una vettura segue la sua bicicletta per assicurarsi che sarà puntuale in commissariato. “Dovevo presentarmi tre volte al giorno: alle 9, alle 13.30 e alle 19.30”.

Joël trascorre i suoi pomeriggi ad organizzare gli incontri associativi a Malakoff, dedicati alle grandi sfide internazionali legate al clima. Un modo per lui di partecipare, nonostante tutto, all’evento che aspettava da tempo. Ma, a partire dalle 20, deve rinchiudersi in casa.

Amici e parenti temono di chiamarlo o di scrivergli messaggi mail. Chi lo fa ne paga le conseguenze. Una sera, un amico lo avverte che sta per arrivare con “una piccola sorpresa”. Sarà immediatamente perquisito all’uscita dalla metro. Nel suo zaino: una scatola di biscotti.

In un rapporto del ministero degli Interni, il giovane uomo vien dipinto come un “individuo violento” che partecipa a delle manifestazioni che causano un disturbo all’ordine pubblico. Ciononostante, per una sua amica, anche lei militante ecologista, “Joël è il tipo di persona alla quale ci si rivolge quando c’è da risolvere un conflitto. Riesce sempre a calmare gli animi quando si sta per perdere il controllo della situazione”. 

Joël denuncia il carattere diffamatorio del rapporto ministeriale: “Hanno scritto solo di alcuni raduni che sono degenerati, negando tutto il resto della mia vita militante”. È diventato militante no global quando studiava filosofia. È anche stato attivo nel movimento giovanile di Amnesty e ha partecipato alla rete No Border.

In seguito agli arresti domiciliari, Joël non riesce a cancellare dalla memoria le settimane trascorse sotto alta sorveglianza. “Si era rotto qualcosa. Ho sentito il bisogno di trovare un rifugio, un luogo dove la solidarietà trionfasse su tutto il resto”. Nell’agosto 2016 abbandona la vita parigina e si trasferisce a Bure con una trentina di attivisti ecologisti. Piantano patate, cipolle e cereali nei campi dei dintorni per vivere insieme, “costruire un altro modo di vita”.

Qui, in piena campagna, a 300 chilometri da Parigi, il ritmo dei controlli di polizia rimane lo stesso. “La polizia passa mediamente due volte al giorno per registrare i numeri delle targhe delle automobili parcheggiate davanti a casa nostra”, testimonia una persona che condivide la casa con Joël.

Gli abitanti della casa denunciano una pressione quotidiana, sufficientemente discreta per non fare scalpore. “Bisogna vederlo per crederlo”. Joël ritiene che le pressioni da parte della polizia siano molto aumentate dopo la dichiarazione dello stato d’urgenza. “Si instaura la paura come principio di vita, per poter fermare chiunque in qualsiasi momento”, commenta prima di ammettere che si è abituato, anche lui, a questo stato eccezionale.

Alla vigilia di una mobilitazione, lo sa, il suo telefono emetterà dei “rumori bizzarri”. A ogni nuova visita, l’elicottero della gendarmeria volerà sopra la casa. E ogni mattina saluterà l’uomo in uniforme all’angolo della strada, tenendo due baguettes sotto il braccio.

Maggiori informazioni su Joël Domenjoud  

https://www.amnesty.fr/liberte-d-expression/actualites/joel-la-surveillance-au-quotidien