La libertà d’opinione messa a rischio

La libertà d'opinione messa a rischio

La libertà d’opinione messa a rischio

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Le ambiguità contenute nel disegno di legge antiterrorismo, destano significative preoccupazioni a livello nazionale ed internazionale. L’adozione di definizioni eccessivamente ampie di terrorismo in apposite leggi volte a contrastarne il fenomeno, pone il rischio, laddove tali leggi e misure limitino il godimento dei diritti e delle libertà, di violare i principi di necessità e proporzionalità che disciplinano l’ammissibilità di qualsiasi restrizione ai diritti umani. Questo è il caso del disegno di legge che sarà sottoposto a votazione referendaria il 13 giugno, nel quale è contenuta una definizione di terrorismo vaga e approssimativa. 

L’art. 23e del testo di legge stabilisce infatti che siano da considerarsi attività terroristiche le “azioni tendenti ad influenzare o modificare l’ordinamento dello Stato che si intendono attuare o favorire commettendo o minacciando di commettere gravi reati o propagando paura e timore”. Inoltre, la legge descrive come “potenziale terrorista” colui che, sulla base di indicatori “concreti ed attuali” si “suppone” compirà atti terroristici. 

La presenza di termini elusivi come “si suppone” o la mancanza di una specifica elencazione degli “indicatori concreti ed attuali” rende tali definizioni nebulose e generiche, inadatte ad uno stato di diritto poiché inclini ad incoraggiare un’applicazione arbitraria della legge. Non si può infatti escludere che tale base normativa possa porre i presupposti per interpretare e punire quali “attività terroristiche” anche atti leciti volti ad influenzare o modificare l’ordine costituzionale, come ad esempio il giornalismo indipendente o l’operato dei gruppi di pressione o degli attivisti politici. 

In mancanza di una definizione esauriente ed universalmente concordata di terrorismo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha in più occasioni ribadito che le leggi e le politiche antiterrorismo devono essere circoscritte ai reati che corrispondono alle caratteristiche riconducibili alla lotta al terrorismo internazionale come identificato dal Consiglio di Sicurezza nella risoluzione 1566 del 2004. Quest’ultima definisce “terroristici” quegli atti criminali, in particolare quelli diretti contro i civili, che abbiano l’intento di causare morte o lesioni gravi o presa di ostaggi allo scopo di seminare terrore tra la popolazione, o un gruppo di persone, con lo scopo di intimidire una popolazione o costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un atto o ad astenersi dal farlo. 

Dopo una prima lettura delle caratteristiche sopracitate, appare immediatamente chiaro che il disegno di legge proposto dal Parlamento e dal Consiglio Federale non rispetti affatto le linee guida identificate dalla comunità internazionale, poiché non lega la definizione di terrorismo al compimento di attività criminali o all’uso della forza. Si tratta di una definizione anche più ampia di quella ai sensi dell’articolo 260 dello stesso codice penale svizzero, che definisce terrorismo come “atti di violenza criminali volti a intimidire la popolazione o a costringere uno Stato o un’organizzazione internazionale a fare o ad omettere un atto”. 

In mancanza del nesso tra nozione di terrorismo e atto criminale, l’esercizio della libertà di espressione potrebbe essere compromesso. In questo senso, la Confederazione corre ad oggi il tangibile rischio di instituire un modello per la soppressione autoritaria della dissidenza politica, ancor più qualora si consideri che, tranne nel caso degli arresti domiciliari, spetterà alla polizia federale ordinare ed eseguire le misure elencate nel provvedimento legislativo, senza il controllo di un organo giudiziario.

Non essendo espressamente definiti dalla legge quali siano gli “indizi concreti e attuali” che porterebbero la polizia federale a supporre che un individuo possa essere considerato terrorista e quindi sottoposto alle apposite misure atte a prevenirne l’attività, attivisti politici, giornalisti nonché la società civile in senso lato, potrebbero essere dissuasi dall’esprimersi liberamente, limitandosi nelle ricerche online per paura che esse vengano catalogate ed operando una azione di autocensura con un effetto paralizzante sullo sviluppo della comunità intellettuale e di una società civile libera ed informata. Il disegno di legge prevede invero che la fedpol e le competenti autorità cantonali possano trattare dati personali di “potenziali terroristi” degni di particolare protezione, come i dati concernenti le opinioni o attività religiose e filosofiche. 

La lacunosità della legge e il suo potenziale effetto sulla libertà di espressione viola inoltre diverse disposizioni contenute in trattati internazionali di cui la Svizzera è firmataria, in specie: l’art. 19 (libertà di opinione e di espressione) e l’art. 18 (libertà di pensiero, coscienza e religione) del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, l’art. 9 (libertà di pensiero, coscienza e religione) della Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, nonché l’art. 13 (libertà di formare delle opinioni e di esprimerle) e l’art. 14 (libertà di pensiero, di coscienza e religione) della Convenzione dei Diritti del Fanciullo (ricordiamo infatti che le misure previste dalla legge sono applicabili anche ai minori a partire dal dodicesimo anno di età). 

Le disposizioni sopracitate prevedono che l’esercizio della libertà di espressione non possa essere soggetto ad autorizzazione o censura e che possa essere regolamentato unicamente dalle limitazioni espressamente stabilite dalla legge, cosa che nel caso di specie non avviene in modo adeguato. La sorveglianza di dati sensibili della popolazione sulla base di sospetti da parte di un’autorità amministrativa (la fedpol) in assenza di una procedura penale, favorisce inoltre la creazione di un sistema di giustizia parallelo in cui i cittadini sono privati delle garanzie procedurali che spettano loro.

È impossibile in tal senso non operare un rimando allo scandalo delle schedature del 1989, quando venne alla luce l’imponente sistema di controllo di massa della popolazione messo in piedi dalle Autorità federali e le Forze di Polizia cantonali. Si stima che vennero raccolti fino a 900.000 dossier che segretamente monitoravano le attività, a partire dagli spostamenti, e raccoglievano informazioni riservate di cittadini, organizzazioni, studi legali e gruppi politici prevalentemente di orientamento politico di sinistra. 

Lucia Greco


1 Comment

Umberto Castra

Maggio 18, 2021at 7:00 pm

Condivido il contenuto dell‘articolo. Rafforzo il concetto con questa citazione di Giorgio Agamben:
„ Lo stato di eccezione non è una dittatura […] ma uno spazio vuoto di diritto, una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche – e, innanzitutto, la stessa distinzione fra pubblico e privato – sono disattivate.“