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#TIVEDO – Sharp Eyes on China

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La Fondazione Diritti Umani organizza una rassegna di eventi dalla prospettiva dei Diritti Umani, con un focus sulle relazioni fra la Svizzera e la Cina.

#TIVEDO si pone il compito di informare, sensibilizzare e mobilitare la comunità internazionale sulle violazioni dei Diritti Fondamentali


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Vent’anni di guerra e un’amara conclusione

Vent’anni di guerra e un’amara conclusione

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Non c’è pace per la terra in cui i talebani hanno ‘rubato il tempo’

Pubblicato da Naufraghi di Lucia Greco

Kabul è caduta. Non sono stati sufficienti gli 83 miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti per formare un esercito locale: l’avanzata dei talebani è stata inarrestabile. Le forze di sicurezza afghane, equipaggiate e formate dagli alleati per anni, sono capitolate, in alcuni casi senza nemmeno opporre resistenza. Difficile giustificare un tale epilogo innanzi alle 3577 vittime della coalizione internazionale e alle oltre 70’000 tra i civili afghani dal 2001 ad oggi. Ne esce sconfitta la politica estera occidentale a guida statunitense e ne esce sconfitta la NATO che ancora faticava a riprendersi dall’accusa di morte cerebrale lanciata da Emmanuel Macron due anni fa.

Recita un ormai famoso proverbio afghano: voi avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo. Hanno saputo aspettare i talebani e sono riusciti a conquistare nuovamente il potere. Vent’anni di impegno militare erano invece diventati troppo ingombranti per l’avanzare del ticchettio degli orologi della Casa Bianca. Se quella in Afghanistan rappresenta l’amara sconfitta del mondo liberale che vuole esportare la democrazia, essa è soprattutto la vittoria dell’interpretazione più estrema del fondamentalismo sunnita. La nascita dell’Emirato Islamico dei talebani fornisce infatti la base territoriale di cui la Jihad era stata privata grazie all’intervento americano nell’Afghanistan di Osama Bin Laden prima, e a quello della coalizione internazionale contro il califfato di Al-Baghdadi in Iraq e Siria poi. Gli eventi che questa notte sono culminati nella presa del palazzo presidenziale, sono il risultato della resilienza mostrata dai Mujaheddin negli anni e della parallela debolezza delle istituzioni afghane, considerate corrotte ed incapaci di guadagnare credibilità presso il proprio popolo nonostante il sostegno internazionale e l’imponente flusso di aiuti esteri. Un attore, quello del governo di Ghani, talmente debole da rimanere escluso persino dai negoziati di Doha, dove i talebani sono riusciti ad ottenere ciò che più necessitavano, ovvero il ritiro delle truppe dell’Alleanza Atlantica. Ritiro, quest’ultimo, che è stato il preludio dello sfacelo dell’esercito nazionale afghano, abituato a vedere ogni operazione pianificata nei dettagli e nella logistica dagli ufficiali NATO.

“Questa non è Saigon” ha affermato il Segretario di Stato americano Blinken per contrastare gli inevitabili paragoni con l’ultima grande débâcle americana. È vero: questo non è il Vietnam, questo è l’Afghanistan. Per gli americani è la guerra più lunga mai combattuta, è l’11 settembre, è la crociata contro il terrorismo. Per i britannici è un impegno che dura ormai da quasi due secoli: è la faticosa delimitazione ottocentesca della linea Durand con il vicino Pakistan, è l’avamposto per contrastare la rivale potenza russa nel Grande Gioco in Asia, sono le tre guerre anglo-afghane che hanno visto generazioni di inglesi partire per il fronte durante più di cento anni.

Questa è una terra che non conosce pace, crocevia di interessi geopolitici e foriera di conflitti che superano i confini nazionali. Quello che accade in Afghanistan è un problema di sicurezza che fa tremare tutti i paesi, occidentali e non. Per gli stati vicini, il flusso di rifugiati e i militari in fuga aumenta il rischio di infiltrazioni jihadiste. Così Ankara, per fermare l’arrivo di profughi che si riversa come un fiume in piena verso le province turche di Van e Igdir, si adopera per costruire un muro al confine con l’Iran. Mosca, che ha già conosciuto la complessità logorante di questi territori durante la guerra russo-afghana del 1979-1989, teme per la sicurezza delle ex repubbliche sovietiche di Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan e organizza esercitazioni militari al confine. Non solo il Cremlino, ma diversi governi, tentano la via del dialogo con i talebani, i quali, ancor prima di ultimare la conquista del paese, ottengono la legittimazione sul piano delle relazioni diplomatiche venendo ricevuti a Mosca, Teheran, Ashgabat e infine a Tianjin, in Cina, fino ad arrivare a Pechino il 28 luglio scorso. Al governo cinese fanno infatti gola i diritti estrattivi nella regione e tali interessi economici nel quadro della pretenziosa e poderosa operazione di politica estera della via della seta, sarebbero garantiti solo attraverso una cooperazione stabile con l’amministrazione di Kabul. La Cina inoltre, si muove in modo da scongiurare il rischio che l’Afghanistan diventi una base logistica per i separatisti e i jihadisti uiguri.

Non ha più senso dunque puntare il dito verso la vicina Islamabad, accusata più volte di supportare i talebani. Oramai tutte le potenze regionali pongono le basi per una futura coabitazione con quello che si può definire il nuovo governo afghano. Non resta che accettare che l’inevitabile si sia compiuto: a dispetto della moltitudine delle realtà che costellano l’universo del fondamentalismo islamico, i talebani si sono imposti a guida della nuova base logista per il reclutamento del terrorismo della Jihad globale. Torna, per il popolo afghano, il medioevo conosciuto tra il 1996 e il 2001. Sorge un nuovo giorno in questo paese senza luce, dove orde di giovani verranno privati della libertà donata loro dallo studio garantitogli negli ultimi anni di speranza. Una speranza tradita ancora una volta, dopo decenni di guerre civili, susseguirsi di regimi politici e del terrore, interventi stranieri presunti portatori di una pace a lungo mai mantenuta. Una speranza che sarà tradita ogni volta che una donna verrà frustata perché dei sandali timidamente faranno capolino sotto il burqa. Una speranza che sarà tradita ogni qual volta un richiedente asilo verrà rimpatriato nella terra della Sharia. Non passerà ora in cui i diritti umani non verranno calpestati. E mentre gli occidentali evacuano il paese, i disperati civili vengono lasciati a terra. Non ci sono aerei per chi è nato e cresciuto in Afghanistan, per chi ha osato rivestire una carica pubblica, apparire in televisione, collaborare per lo sviluppo della libertà di espressione, di stampa, per i diritti civili e politici, economici e sociali. Nonostante le promesse delle ultime ore dei governi occidentali, che suonano vuote come quelle degli ultimi venti anni, arrivano le prime notizie di esecuzioni di traduttori che hanno osato collaborare con la NATO. Il popolo afghano è stato ancora una volta abbandonato al suo destino.


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In ricordo di Liu Xiaobo. Europa, Stati Uniti e la difesa dei diritti umani 2

In ricordo di Liu Xiaobo. Europa, Stati Uniti e la difesa dei diritti umani

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Il 6 marzo si celebra la Giornata dei Giusti, indissolubilmente legata ai temi della democrazia e la prevenzione dei genocidi, voluta con tenacia dall’associazione Gariwo, ispirandosi al Giardino dei Giusti di Gerusalemme. La giornata è stata appoggiata nel 2012 dal voto del Parlamento europeo per ricordare coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l’umanità e ai totalitarismi.

Quest’anno sarà ricordato, tra gli altri, il cinese Liu Xiaobo che, insieme alla moglie Liu Xia, fu capace di rilanciare un messaggio, in occasione del suo arresto che, “potrebbe diventare un manifesto per rinnovare il gusto della democrazia e del pluralismo ovunque”. “Non ho nemici, né provo odio” aveva detto ai suoi carcerieri Liu Xiaobo.

Quell’odio che, aggiungeva, “corrompe la coscienza e l’intelligenza dell’uomo, insieme con la mentalità da nemico, che avvelena lo spirito di una nazione, istigano alla lotta brutale in cui domina la regola mors tua vita mea, distruggono la tolleranza e l’umanità di una società, ostacolano il progresso di una nazione verso la libertà e la democrazia.”

Liu Xiaobo, che era stato attivo per anni nella difesa dei diritti umani nel suo Paese, aveva ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 2010 “per il suo impegno non violento a tutela dei diritti umani in Cina”. Primo cinese a ricevere questo importante riconoscimento durante la detenzione, lo scrittore Liu, professore di letteratura, aveva iniziato la sua attività di dissidente nel 1989, quando partecipò alle manifestazioni in piazza Tienanmen.

Accusato e condannato nel 1991, successivamente aveva sottoscritto il manifesto Charta 08, nel dicembre del 2008, in occasione del sessantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani, raccogliendo subito adesioni sia di semplici cittadini che di intellettuali e attivisti.

Liu Xiaobo ha conciliato la tenacia della sua denuncia con la manifestazione di un atteggiamento non violento e non ispirato all’odio. La Storia ci ha insegnato che questi atteggiamenti possono alla fine avere la ragione.

La difesa dei diritti umani si confronta sempre con le azioni di singoli Stati. Ne sa qualcosa l’Unione europea che in questi giorni è impegnata su diversi fronti, in particolare con la Russia dopo l’arresto di Alexei Navalny, dopo il suo rientro a Mosca dalla Germania e un rapido processo.

Il Consiglio dei ministri dell’UE ha infatti deciso, martedì 2 marzo, di imporre misure restrittive per quattro esponenti delle autorità russe, responsabili di serie violazioni dei diritti umani, compreso l’arresto e la detenzione arbitraria, così come la dispersione e la repressione sistematica di pacifiche manifestazioni.

Questa decisione fa parte del nuovo regime globale dell’UE per le sanzioni in caso di violazione dei diritti umani, dovunque accadano nel mondo, adottato dall’UE il 7 dicembre dello scorso anno.

Si tratta di una sorta di “Magnitsky Act” europeo, simile a quello adottato dagli Stati Uniti nel 2012 per sanzionare i responsabili della morte di Sergey Magnitsky, esperto fiscale in Russia, per aver scoperto una frode che coinvolgeva funzionari corrotti. (vedi articolo …

In questo contesto ha fatto irruzione il nuovo Presidente americano Joe Biden. Il suo America is back! è diventato il leit motiv di numerose decisioni che stanno restituendo agli Usa il ruolo (e le responsabilità) che gli spettano sulla scena internazionale (rientro nella Conferenza di Parigi sul cambiamento climatico, rientro nella Commissione diritti umani dell’Onu, la clamorosa denuncia dei responsabili dell’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, ucciso in maniera feroce all’interno dell’Ambasciata del suo Paese in Turchia).

Questo quadro potrebbe essere arricchito da un lato dalla denuncia delle tante, troppe, violazioni della libertà e dei diritti che si perpetrano in tutto il mondo, ma anche di quanto si fa per realizzare nuove convergenze tra attori statali e non nell’azione per contrastare quelle violazioni. È un confine mobile, che ripropone continuamente contraddizioni e limiti. Per questo il Ricordo e il riconoscimento dei Giusti è utile a indicare il cammino da compiere ogni giorno.

Fonte: https://it.gariwo.net/persecuzioni/diritti-umani-e-crimini-contro-l-umanita/in-ricordo-di-liu-xiaobo-europa-stati-uniti-e-la-difesa-dei-diritti-umani-23181.html


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La Germania condanna uno 007 di Assad per torture

La Germania condanna uno 007 di Assad per torture

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Sentenza storica. La prima contro un elemento del regime siriano grazie all’utilizzo della “giurisdizione universale”

È stato complice dei “crimini contro l’umanità” commessi in Siria. È la storica sentenza pronunciata da un tribunale tedesco nel corso di un processo del tutto atipico: il primo su scala globale a carico di un elemento del regime di Assad. Si tratta di Eyad Al Gharib, 007 siriano, condannato oggi dall’alta Corte di Coblenza a 4 anni e mezzo di detenzione per aver collaborato a forme di tortura e gravissime privazioni di libertà. La procura aveva chiesto per lui cinque anni. Nelle stesse ore è arrivato anche il giudizio per l’uomo ritenuto la massima guida dell’Isis in Germania: Abu Walaa, condannato dalla Corte d’appello di Celle, che dovrà scontare invece 10 anni e mezzo di prigione.

La sentenza sull’agente siriano, scappato in Germania, segna una svolta. Al Gharib, 44 anni, è accusato di aver collaborato all’arresto di 30 persone durante una manifestazione fra il settembre e l’ottobre del 2011. Nel pieno del sollevamento popolare sfociato nella guerra civile che tuttora attraversa il paese, i dissidenti furono portati in un centro dei servizi segreti di Damasco, nominato Al-Kathib, e qui torturati. Ed è la prima volta che un tribunale si pronuncia su un crimine legato alla brutale repressione del regime di Assad. Inizialmente collegato a questo, ma poi separato dai giudici, è ancora in corso invece il processo di Anwar Raslan, 58 anni, che risponde della morte di 58 persone e della tortura di 4.000 detenuti. L’ex colonnello è ritenuto una figura cruciale del sistema di sicurezza del regime di Damasco, e la sentenza per lui non dovrebbe arrivare prima di ottobre. Il giudizio di oggi vuole essere un “segnale” a chi in Siria calpesta sistematicamente i diritti umani, ha spiegato il procuratore capo Jasper Klinge, affermando fra l’altro che la sentenza si fonda sul principio della competenza universale, che permette di perseguire gli artefici di quei crimini, qualsiasi sia la nazionalità e il luogo in cui li abbiano commessi.

Fonte: https://www.laregione.ch/estero/estero/1495206/anni-germania-assad-sentenza-regime

Per approfondimenti:

Convenzione europea sull’imprescrittibilità dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità:

Convenzione imprescrittibilità